martedì 13 gennaio 2015

Anteprima del libro Guardando le stelle, come inizia



A ricordo di Raffaella, Giovanni, Tea, Carmen
e
zia Angelina

PERSONAGGI PRINCIPALI

Mezzana, seconda guerra mondiale

Giovanni Ravelli, panettiere e fotografo del paese
Violante, sua moglie
Giuseppe Ravelli, fratello di Giovanni
Maria, moglie di Giuseppe
Matilde, sorella di Violante
Raffaella, figlia di Giovanni e Violante, fidanzata con Giovanni Pedergnana
Adriana, figlia di Raffaella e Giovanni

Pietro Pedergnana
Lucia, sua moglie
Giovanni, figlio di Pietro e Lucia e fidanzato di Raffaella
Dorotea (Tea), sorella di Giovanni (a Gallarate)
Carmen, figlia di Tea

Wanda ed Eva, bambine di Milano sfollate a Mezzana


Mezzana 2014

Lara, nipote di Raffaella e Giovanni, figlia di Adriana
Marco Bacchi, storico









Prefazione

Chi dei miei lettori ha già letto in passato il libro “Reset” troverà in questo libro l’ideale continuazione di quel testo, con qualche differenza. In “Guardando le stelle” ho eliminato i riferimenti al futuro con il piano di cancellare i diari e tutto ciò che poteva ricordare all’uomo che cos’era stato il suo passato, mentre ho mantenuto il metodo narrativo con l’alternarsi di momenti passati e altri relativi ai nostri giorni.
I personaggi sono in parte quelli di Reset, li ritroviamo anni dopo, alla vigilia della seconda guerra mondiale e protagonisti sono i figli, in particolare si racconta la storia tra Giovanni (figlio di Pietro Pedergnana di Reset) e Raffaella (figlia di Giovanni Ravelli e Violante Pangrazzi di Reset) prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale.
Lo scenario è ancora quello del paese di Mezzana in val di Sole (Trentino) e tutto ruota su un mistero su cui si cerca di far luce.
Come per Reset, tutta la narrazione è vera, si tratta cioè di fatti realmente accaduti. È la storia dei miei nonni, come Reset era quella dei miei antenati più lontani nel tempo: resta immutata la mia volontà di ricordare il passato ed è forse questo il filo conduttore di entrambi i libri.
Chi non ha letto Reset può leggere questo libro ugualmente, magari non capirà alcuni riferimenti, ma può essere letto anche come testo a sé.
Con l’augurio di non scordare mai il passato e le persone che hanno fatto parte della nostra vita.

Lara Zavatteri








Mezzana, gennaio 2014

Lo storico sarebbe passato quella mattina, approfittando del tempo bello dopo giorni e giorni di nevicate intense. La storia dei fucili e delle divise tedesche sepolti chissà dove in quell’aia (o in altro luogo non ancora scoperto) lo aveva affascinato subito, non appena l’aveva sentita per la prima volta. Aveva desiderato fin da allora capire come si erano svolti i fatti e, soprattutto, vedere con i suoi occhi quegli oggetti o ciò che ne rimaneva. Il problema era che la ragazza ne aveva parlato come una sorta di leggenda o meglio era certa che la storia del nonno fosse vera ma non aveva idea di dove iniziare le ricerche. A quello avrebbe pensato lui, si era detto, per non rischiare di trovarsi di fronte a una truffa ben architettata o a paccottiglia che non valeva niente.
Ora la ragazza stava in casa, in attesa dell’uomo e si domandava se aveva fatto bene a raccontare quella storia che risaliva alla fine della seconda guerra mondiale, o se non fosse stato meglio tacere. In fin dei conti anche se la vicenda era accaduta veramente, neppure lei aveva la minima idea di dove potevano trovarsi le divise e le armi dei due tedeschi che avevano chiesto aiuto al nonno per poter fuggire.
Un dilemma che chissà quando si sarebbe risolto. Intanto, si preparò a parlare con l’uomo, perché dalla finestra aveva visto la sua auto parcheggiare davanti casa.
Era proprio lui e con una certa impazienza scese dalla macchina, allora la ragazza gli andò incontro sull’uscio.

“Buongiorno, signorina” disse l’uomo.

“Buongiorno, prego, si accomodi” accennò lei.

“La ringrazio” disse lui.
La ragazza fece strada verso il salotto e fece segno all’uomo di sedersi sul divano.

“Gradisce del caffè?” domandò mentre già si stava avvicinando alla caffettiera e al servizio buono che aveva preparato per l’occasione.

“Sì, la ringrazio, lo bevo volentieri. Nel frattempo, perché non mi racconta per bene tutta la storia che mi ha accennato giorni fa?”.

“Zucchero?” rispose lei, come se non avesse sentito la domanda.

“Sì, uno”.

“Latte?”

“No, grazie” disse lui, che iniziava a spazientirsi. Ci mancava che chiedesse: “In tazza piccola? Ristretto?” E sarebbe esploso. Invece la ragazza si avvicinò con tazzina e piattino che depositò sul tavolino a fianco a lui.

“Prego” disse.

“Grazie” fece lui, iniziando a sorseggiare.

“Come le dicevo, perché non inizia a raccontarmi quella storia…” insistette lui, tra una sorsata e l’altra.

“Beva, per il momento, e si ricordi che anche se la storia è vera potremmo non trovare nulla, com’è stato per anni e anni” rispose lei.

“Certo, ma forse invece potremmo avere più fortuna” disse lo storico. Voleva credere che fosse possibile ritrovare quegli oggetti, oltretutto era una bella storia da raccontare.

La ragazza finì il suo caffè e poggiò la tazzina sul tavolo, seguita dall’uomo che non vedeva l’ora di sentire l’intera vicenda.

“Come le ho già detto, la storia è vera, ma è quasi sicuro che non troveremo nulla di ciò che lei vuole recuperare con tanto ardore. Anch’io vorrei trovare quegli oggetti, non mi fraintenda, ma in anni di lavori e ristrutturazioni non è mai saltato fuori nulla” precisò di nuovo la ragazza.

L’uomo scosse la testa “Va bene, ho capito. Ma intanto lei mi racconti, poi chissà, non si può mai sapere”.

“Come vuole. Devo iniziare circa dalla seconda guerra mondiale, quando nell’appartamento a fianco di dove ci troviamo ora abitavano i miei nonni, Giovanni e Raffaella. Lei era figlia del fotografo del paese che con la famiglia, da bambino, era emigrato per diversi anni a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, quando qui c’era solo miseria. Poi la famiglia tornò in paese e non se ne andò più. I miei bisnonni avevano combattuto la prima guerra mondiale, il padre di mio nonno fu attendente di un ufficiale ungherese, qui, come lei sa, si era sotto l’Austria in quel periodo. Dobbiamo tornare appena prima degli anni Quaranta” disse la ragazza e prese a narrare la storia che l’uomo era arrivato fin lì per sentire, mentre volti, voci e luoghi di un’altra epoca ritornavano in vita grazie alle sue parole.






Mezzana, 1939

Non aveva ancora ventun anni, ma Giovanni aveva acconsentito. Si era quasi negli anni Quaranta ormai e bisognava essere più “aperti”, almeno così diceva sua cognata Matilde. Giovanni, dopo la fine della prima guerra mondiale, aveva visto lo scioglimento dell’Impero austro ungarico, il suo paese, Mezzana, in Trentino, passare sotto l’Italia e aveva avuto tre figli da Violante, la ragazza di cui si era innamorato, la cui sorella, Matilde, con il passare degli anni anziché ammorbidirsi era sempre più sostenitrice dell’indipendenza delle donne.
 Giovanni, che lavorava come panettiere e coltivava l’hobby della fotografia, materia imparata nei lontani anni di emigrazione a Monte San Savino, in provincia di Arezzo, dove si era trasferito da bambino con la famiglia, prima di far ritorno a Mezzana, alla fine aveva acconsentito a quelle nozze. Non che avesse niente in contrario, l’unica cosa era appunto l’età di Raffaella, sua figlia (chiamata così per ricordare il fratello Raffaele, morto in Sudamerica) che risultava ancora minorenne, perché all’epoca la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. In fondo il promesso sposo era figlio di Pietro Pedergnana, quello stesso Pietro con cui Giovanni aveva combattuto il primo conflitto mondiale e inoltre la nuova casa era ancora in paese, per cui ci sarebbe stata facilità nel frequentarsi.
Il promesso sposo si chiamava come lui, Giovanni, e come tutti in paese gestiva un piccolo allevamento di bovini. Veniva spesso a “morose”, come si diceva in dialetto e a volte il carattere pur mite del ragazzo gli faceva alzare gli occhi al cielo quando, passata l’ora, non ne voleva sapere di andarsene. Allora Giovanni padre, seduto in un angolo, perché era sempre presente, lui, tossicchiava un paio di volte, come a far capire che era ora di tornare a casa.
 Il fidanzato capiva-a volte servivano parecchi colpi di tosse- e Giovanni con una punta d’ironia aveva anche l’ardire di guardarlo negli occhi come a dire “Di già? Guarda un po’ com’è volato il tempo!” mentre Raffaella accompagnava il ragazzo alla porta e Giovanni la sprangava, casomai volesse tornare indietro. La moglie Violante lo derideva un poco per questo suo comportamento mentre a Raffaella pareva che il padre iniziasse a tossire ogni volta sempre prima del dovuto.
A Giovanni non dispiaceva che la figlia avesse uno spasimante ma era convinto che fosse ancora troppo giovane per sposarsi.

“Cosa vorresti fare, chiuderla nella sua stanza finché non sarà cresciuta?” diceva Violante, che in fondo però condivideva l’opinione del marito.

“Che discorsi, Violante! Però mi dispiace, ecco, anche se lui mi pare un bravo giovane” rispose Giovanni mentre si accendeva la pipa.

“Perché che cosa credi, che a me non dispiaccia? Sono sua madre, a me pare ancora una bambina. In fondo è ancora un po’ bambina, ma se vogliono sposarsi, che possiamo fare?” disse Violante allargando le braccia, come a dire che più di tanto non potevano intervenire.

Dalla sua stanza, Raffaella aveva ascoltato tutto il discorso dei genitori. Le dispiacque un poco sentirli parlare così, non perché avessero detto qualcosa di male, ma perché capiva che non erano pronti a separarsi da lei, eppure lei voleva sposare quel ragazzo e così sarebbe stato. Sarebbe stato difficile anche per lei lasciare la casa dov’era nata, lasciare la vita che aveva vissuto fino a quel momento e tutto ciò che le era familiare. La loro casa era in alto al paese, la casa che l’attendeva più in basso, dopo il cimitero che, di notte, brillava di fiammelle blu che, le aveva spiegato suo padre, erano i fuochi fatui delle sepolture. All’inizio ne aveva avuto paura, poi erano diventati uno spettacolo abituale.

Sua sorella e suo fratello già dormivano, ignari di come la vita cambi in poco tempo, ignari di quanto anche un momento felice possa portare con sé anche un retrogusto amaro, una sofferenza per ciò che non sarà più.
Le scese una lacrima al pensiero che tutto sarebbe cambiato, allora aprì piano una finestra e guardò il cielo punteggiato di stelle. In quel momento capì che tutto sarebbe andato per il meglio e la paura, insieme alla malinconia, svanirono nella notte.


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