lunedì 9 dicembre 2013

A NATALE REGALA O REGALATI QUESTO LIBRO



Per il prossimo Natale, regala o regalati questo libro. Vuoi saperne di più? Leggi i post su questo blog per scoprire trama e altre curiosità, puoi leggere anche un report gratuito. Per avere il libro puoi acquistare via Internet (link segnalati nel blog) oppure puoi contattarmi a larazavatteri@gmail.com.

Inizia a farti un’idea leggendo i post! Buona lettura

Lara Zavatteri

lunedì 2 dicembre 2013

RECENSIONE DI RESET DA MAURIZIO NERI




Ringrazio Maurizio Neri per il commento che ha scritto su Facebook sul mio libro Reset:

  “Ho finito ieri sera il tuo libro. Che dire? Si vede che è scritto da una persona che ama la sua terra, le sue origini e ha nel cuore la voglia di conservarle e ricordarle ( mi era partito l'input). Mi è piaciuta particolarmente la storia di Romedio. Il suo viaggio, l'arrivo a Monte S.Savino. Le sue difficoltà. Un bel libro piacevole da leggere ed anche emozionante. Una tua frase: Passato, presente e futuro, si potevano completare a vicenda. E' vero. La conservazione dei ricordi serve alle generazioni future. E' anche un nostro dovere non cancellare la memoria ed i ricordi. In tale ottica mi sono interessato a Mezzana ed a quanti hanno vissuto lì molto prima di noi. Grazie Lara.”

giovedì 28 novembre 2013

I RAVELLI DI MAURIZIO NERI






Maurizio Neri abita a Como, ma le sue origini (per parte materna) sono in val di Sole, nel paese di Mezzana (foto), proprio quello narrato nella prima parte di Reset. Per cercare le sue radici Maurizio ha fatto molte ricerche e creato un sito che vi invito a visitare sia per conoscere la sua storia personale sia magari per trovare spunti se avete qualche avo di cognome Ravelli o nativo di Mezzana.

 Sono felice che Maurizio sia diventato anche un lettore di Reset, anche se non credo ci siano parentele fra le nostre famiglie leggendo il libro scoprirà la storia di Romedio (nella prima parte), tutta vera come vere sono le altre due riferite alle famiglie Pangrazzi e Pedergnana, sempre di Mezzana. Visitate il sito, cliccando su


giovedì 7 novembre 2013

IL LIBRO, L’UNICEF E IL GSH




Questo libro ha reso possibile un progetto ambizioso, aiutare l’Unicef. Quest’anno, da maggio ad ottobre, per ogni copia da me venduta del libro 2 euro sono stati accantonati per acquistare la Pigotta, la bambola di pezza dell’Unicef. Adottando una Pigotta l’Unicef può donare ai bambini meno fortunati del Mondo dei kit salvavita contenenti zanzariere, vaccini ed altro per permettergli di vivere anche in situazioni di estrema povertà.

Grazie ai miei lettori ho acquistato 5 Pigotte Unicef più un Orsetto didattico, che aiuta sempre l’Unicef, pensato per spiegare ai bambini come iniziare a vestirsi da soli.

Pigotte e Orsetto li ho poi regalati alla cooperativa Gruppo Sensibilizzazione Handicap, con sede a Cles (Tn) e attiva nelle valli del Noce, in un momento al Centro La Casa Rosa di Terzolas (val di Sole). Le Pigotte e l’Orsetto saranno utilizzati al Centro di Terzolas, altri centri della val di Non e per l’intervento educativo domiciliare per i minori (dove sarà utile anche l’orso).

Ringrazio di cuore tutti i miei lettori per aver sostenuto l’iniziativa, per aver acquistato il libro e aver reso possibile tutto questo. Grazie e continuate a seguirmi!

Lara

venerdì 20 settembre 2013

RESET E FRAMMENTI DI UNA VALLE IN AUSTRALIA!




I miei libri Reset e Frammenti di una valle voleranno in Australia, essendo stati acquistati da una persona della valle che li ha regalati ad una parente che vive laggiù. La ringrazio e sono felice che gli articoli sulla valle di Sole (Frammenti) e la storia delle famiglie di Mezzana (Reset) saranno lette anche in Australia.

mercoledì 4 settembre 2013

COME FACCIO A SAPERNE DI PIÙ SU QUESTO LIBRO




Se state cercando maggiori informazioni su questo libro, oltre a leggere i post che vedete in prima pagina, potete scoprire molte altre curiosità grazie ai post pubblicati in precedenza. Vi basta cliccare alla fine dei post della pagina principale (questa) su “post più vecchi” e scorrere all’indietro il contenuto del blog, pagina dopo pagina.

Oppure, potete cliccare sull’archivio che trovate sul blog, scorrendo il blog stesso sui lati e cliccare un anno specifico che v’interessa, procedendo poi in questo modo (anno per anno) o mese per mese o ancora seguendo i post meno frequenti.

Potete leggere estratti e report gratis pubblicati nel blog per capire come inizia il libro e quali sono i personaggi, se è una storia che può piacervi o può piacere a qualcun altro se volete regalare il libro.

Su Facebook potete trovare una pagina dedicata con il titolo del libro, potete cliccare su “mi piace” e diventare fan per essere sempre aggiornati.

Grazie a quanti acquistaranno il libro e a tutti i miei lettori!


Lara Zavatteri

martedì 9 luglio 2013

MINI RIASSUNTO E UNICEF




Se ti stai chiedendo di cosa parla questo libro si tratta di un romanzo che parte nel 2020 quando il Governo con le case che producono tecnologia decide di eliminare il passato delle persone (diari, immagini ecc...) affinché queste pensino solo a comprare. Tre ragazzi si oppongono e cercano di salvare il passato di tre famiglie dei loro avi, scoprendo le loro storie ambientate nel paese di Mezzana (val di Sole-Trentino) e una parte a Monte San Savino (Arezzo) tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il 1919. Le storie sono tutte vere e raccontano le vite delle famiglie Ravelli, Pangrazzi e Pedergnana, ovvero dei miei stessi avi. … Questo libro partecipa all’iniziativa per l’Unicef, puoi saperne di più cliccando su:

lunedì 24 giugno 2013

ESTRATTO GRATUITO DEL LIBRO RESET




I filoni di Reset sono due:

·        Quello del futuro con protagonisti tre ragazzi, Martina, Alessandro e Daniele che vivono nel 2020, quando il Governo con le case che producono tecnologia decide di bandire ogni scritto che riguardi il passato, affinchè le persone non provino più nostalgia o sentimenti simili ma si concentrino solo sul consumo. Pur rischiando molto, rubano del materiale su tre delle loro famiglie d’origine e leggono i documenti, così il lettore scopre le storie del passato. Obiettivo dei ragazzi è salvare quelle storie;
·        Quello del passato, che copre un arco temporale dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino al 1919, con protagoniste tre famiglie, i Ravelli, i Pangrazzi e i Pedergnana. Ognuno attraversa momenti difficili come l’emigrazione ma anche il ritorno a casa, la prima guerra mondiale ma anche la fine del conflitto.

Il paese dov’è ambientato Reset (Reset significa cancellare nella terminologia dei computer, cioè ciò che intende fare il Governo nel 2020) è Mezzana, in val di Sole (Trentino) ma la prima parte, quella dedicata alla famiglia Ravelli, si svolge anche nel paese di Monte San Savino in Toscana, dove la famiglia emigrò per 11 anni prima di tornare in Trentino.

Reset è una storia vera. Le storie narrate in Reset sono frutto del mio lavoro di ricerca e documentazione sui miei avi: le tre famiglie di cui si parla fanno tutte parte del mio albero genealogico e hanno vissuto le vicende narrate nel libro. È qui di stato anche un tentativo per recuperare la mia storia personale e fare in modo che non andasse perduta. A proposito, l’uomo nella fotografia qui sopra, quello vestito di scuro sulla destra, è il mio avo (e protagonista della prima parte del libro) Romedio Ravelli.

Ora, ecco alcune pagine di Reset, si tratta dei primi tre capitoli. Buona lettura!















PERSONAGGI PRINCIPALI



CASA RAVELLI
GIACOMO e CATERINA
ROMEDIO e ALBERTINA
MARINA
GIOVANNI
GIUSEPPE
TERESA
RAFFAELE


CASA PANGRAZZI
SIMONE e MARIA
MARCO
CATERINA
MATILDE
VIOLANTE


CASA PEDERGNANA
PIETRO e LUCIA


FUTURO ANNO 2020
MARTINA
ALESSANDRO
DANIELE



















PARTE PRIMA

































CAPITOLO 1


Anno 2020

Dovevano agire in fretta. Se li avessero trovati intenti a frugare   tra quei documenti forse non ne sarebbero usciti vivi. Erano in quel  luogo da oltre mezz’ora e ancora non cessavano di meravigliarsi di  quanto avevano scorto sugli scaffali e dei documenti trovati ammonticchiati  su armadi impilati in disordine o riposti in cassetti che traboccavano  del loro contenuto, in una confusione che denunciava non solo  l’incuria di chi li custodiva ma soprattutto il generale disinteresse verso  quel materiale. Ovunque si girassero non vedevano altro che montagne  di fogli, in gran parte ingialliti dal tempo, tenuti insieme da graffette con  fotografie in bianco e nero poste all’inizio di ogni fascicolo. Ce n’erano  di tutti i tipi: immagini di case, giardini, paesaggi di un’epoca non ancora  segnata dall’industrializzazione e dal dilagare della tecnologia e soprattutto  volti di donne, uomini, bambini, intere famiglie. Se ne stavano lì  da molti anni e guardavano gli inaspettati visitatori aggirarsi tra la polvere  del tempo alla ricerca di qualcosa che non doveva andare perduto.  Da anni in quelle sale non si vedeva qualcuno, fatta eccezione per il guardiano  che ogni sera passava in quei corridoi silenziosi per controllare  che nessuno si fosse intrufolato nell’edificio e per gli addetti ai lavori che  di tanto in tanto capitavano per depositare altro materiale sottratto alla  memoria di qualcuno. Deponevano i fascicoli, custoditi all’interno di cartelline  di cartoncino giallo, in uno spazio a caso, tanto ci avrebbero pensati  gli altri a riordinare. Gli altri erano coloro incaricati di ordinare  alfabeticamente i fascicoli e in seguito trasportarli, man mano che si procedeva,  in un ufficio attiguo dove sarebbero stati distrutti: tutte le altre  informazioni contenute su formato digitale erano già scomparse da un  pezzo. Per il momento quest’operazione era giunta alla lettera F: un  buon risultato considerando la mole di lavoro richiesta per rastrellare i  documenti di un enorme numero di persone. Gli addetti svolgevano il  loro incarico senza turbamenti o sensi di colpa, consapevoli che quanto  portavano a termine era necessario per il bene di tutti. Almeno, questo  è ciò che veniva ripetuto dalle autorità, ma in fondo chi erano loro per  mettere in discussione quei principi? solo una volta, quando uno di loro  dovette trasportare un fascicolo che ben conosceva, ebbe qualche esitazione.  Non si decideva a separarsene e fu solo grazie all’intervento di un  collega che in pratica glielo strappò di mano che tutto andò a buon fine.  Insomma, non erano delle macchine, ma erano molto vicini a diventarlo.  Da quando il Governo aveva deciso di dare il via all’operazione Reset,  termine prestato dalla tecnologia, migliaia di informazioni erano andate  perse irrimediabilmente. L’operazione, iniziata da qualche anno, mirava  a cancellare letteralmente il passato delle persone attraverso la raccolta  di tutto il materiale che ne costitutiva la storia: fotografie, documenti,  scritti degli antenati gelosamente custoditi per anni che le persone erano  costrette a depositare presso le strutture amministrative della zona. Il  procedimento non era privo di intoppi e difficoltà, soprattutto perché in  tanti si rifiutavano di collaborare con gli operatori del Reset e non consegnavano  spontaneamente ciò che gli veniva richiesto. Per questo motivo  il Governo aveva istituito una legge speciale che condannava coloro  che si sottraevano al loro dovere al primo sollecito con una multa salatissima,  al secondo con la prigionia da sei a vent’anni. In questo modo  si erano ridotti notevolmente i recidivi, spaventati dalle sanzioni applicate,  e di conseguenza era aumentato in maniera proporzionale il materiale  accumulato. Nessuno conosceva davvero la motivazione che aveva  indotto il Governo a dare il via al Reset, a parte l’incremento delle malattie  di tipo psicologico legate a depressioni che venivano collegate alla  tendenza di rivangare il passato da parte delle persone che si tentava in  questo modo di arginare, ma di fatto il nocciolo della questione era un  altro. Dall’anno 2015 in poi le più grandi industrie tecnologiche avevano  prodotto e immesso sul mercato tutta una serie di oggetti dotati di capacità  tali da limitare al minimo i contatti tra gli esseri umani, potenziando  al massimo e nel giro di pochissimo tempo i normali telefonini,  Mp3 e connessioni Internet ormai antiquati. Erano nati così l’Mp34 con  una capacità di 4.000 Terabyte e Ram da 3.200 Gigabyte, capaci di contenere  un’intera biblioteca in E-Book, di fatto eliminando le noiose soste  alle biblioteche pubbliche, ora quasi tutte occupate unicamente a caricare  sui lettori degli utenti, in pochi secondi, l’intero patrimonio librario,  videofonini muniti di capacità tattili e percettive tali da poter toccare il  viso della persona con cui si stava parlando e di sentire odori e profumi,  mentre ogni esercizio pubblico, struttura sanitaria e scolastica era collegata  ventiquattro ore al giorno con le persone grazie a capacità di ricezione  e trasmissione che si aggiravano sui 50.000 Gigabyte al secondo,  stime destinate ad ottimizzarsi nel tempo, che consentivano di seguire  le lezioni, fare la spesa, recarsi in un ufficio o effettuare una visita medica  senza spostarsi da casa propria. Inoltre un nuovo prototipo, lo Z-8000,  sul quale si era iniziato a lavorare già nel 1999, stava dando grandi risultati.  Si trattava di un apparecchio nato nell’ambito della nanotecnologia  che stava sulla punta di un dito e che applicato sotto la cute  permetteva di conoscere in tempo reale l’andamento dei propri investimenti,  le ultime notizie locali, nazionali e internazionali, di accedere alle  banche dati di tutto il mondo, di inviare tramite comandi vocali fax, documenti,  immagini, video e musica grazie ad un minuscolo scanner installato  nel dispositivo, di compiere viaggi virtuali grazie al connubio tra  suoni, parole, immagini, profumi che avvolgevano la persona portandola  in pochi secondi in Perù, nella foresta amazzonica, nelle terre selvagge  del Nord o in qualunque altro paese scelto. Ma la vera novità che aveva  fatto lievitare le vendite dello Z-8000 era l’“I-Myself” “L’Io Stesso”, una  funzione che per un giorno intero si sostituiva all’utente svolgendo per  lui tutte le incombenze lavorative. In pratica bastava programmarlo la  sera prima specificando gli impegni del giorno successivo e il micro dispositivo  lavorava a pieno ritmo immagazzinando dati, occupandosi  delle telefonate, sbrigando le più diverse incombenze legate agli impieghi  intellettuali, ma ci si stava attrezzando per un Z-8000 comprensivo  di estremità mobili per i lavori manuali e artigianali. Con un sostituto a  disposizione erano in tanti a utilizzarlo, consapevoli che lo stipendio a  fine mese sarebbe stato lo stesso, ed ora era in cantiere una nuova funzione  per sviluppare le relazioni interpersonali ed occuparsi degli animali  domestici. Negli ultimi anni con gli enormi progressi della  tecnologia era entrata in crisi l’industria automobilistica, un tempo mercato  più florido che mai, poiché in sostanza spostarsi non era quasi più  necessario, o lo era in misura nettamente inferiore rispetto ai decenni  precedenti. Anche la tv, visto il proliferare dei dispositivi maneggevoli e  tascabili che trasmettevano programmi ad alta definizione, aveva visto  tramontare l’età d’oro che l’aveva contraddistinta a lungo, per non parlare  dei giornali che, sostituiti dalle notizie diffuse ad ampio raggio tramite  i canali di Internet, o avevano chiuso definitivamente i battenti  oppure sopravvivevano a stento, retaggio di un passato culturale ormai  gradito a pochi. In tale contesto era quindi più che auspicabile, da parte  delle grandi industrie produttrici, scongiurare un ritorno al passato che  di tanto in tanto qualcuno predicava auspicandosi un presente ed un futuro  ancora improntati sul contatto umano tra la gente. Erano sorti  anche gruppi sulla scia di questa volontà di ritorno al passato, ma erano  stati messi a tacere attraverso un’opera di riprogrammazione del cervello  attuata in carcere. Il cercare di trafugare del materiale dagli archivi era  punibile con anni da passare in prigione, o peggio. Per questo i laboratori,  ma sarebbe meglio definirli magazzini, dell’operazione Reset in realtà  erano poco sorvegliati, a parte la guardia che passava ogni sera e  che in quegli anni dall’avvio dell’operazione non aveva mai scoperto nessun  potenziale ladro. Perché nessuno avrebbe rischiato la propria libertà  o la vita solamente per recuperare pezzi del proprio passato. Per questo  erano riusciti ad arrivare fin lì e ad aver accesso anche alla stanza in cui  i fascicoli riordinati aspettavano di essere distrutti. Sfogliarono in fretta  le cartelle con le iniziali che interessavano la loro ricerca, trovando quasi  subito, miracolosamente, ciò che cercavano. Ora restava il problema di  uscire dallo stabile. Infatti, presi dalla loro missione, non si erano accorti  dei passi che avanzavano con fare lento e monotono lungo i corridoi. Il  guardiano, palesemente seccato per il compito noioso che lo aspettava  ogni sera, apriva distrattamente le porte degli uffici, con la certezza di  non trovarvi anima viva. Sorvegliava quel posto da cinque anni e non gli  era mai capitato di imbattersi in qualche disgraziato che, sfidando la  legge, arrivava fin lì con l’intento di portarsi a casa ciò che in realtà era  suo. A volte si chiedeva a cosa servisse buttar via soldi in sorveglianza,  ma poi ricordava a se stesso che anche se il suo ruolo risultava in pratica  inutile gli consentiva di guadagnarsi da vivere. Nel laboratorio intanto  si erano resi conto che l’unica speranza di salvezza era cogliere alla  sprovvista la guardia. Aspettarono il momento propizio e, nell’attimo  esatto in cui abbassò la maniglia ed entrò, gli furono addosso urlando e  menando colpi a caso. Il povero guardiano non ebbe nemmeno il tempo  di reagire: rimase lì a terra, attonito per quell’inattesa presenza, con una  gran confusione in testa. Gli altri corsero a perdifiato per i corridoi e  uscirono, fermandosi solo una volta raggiunto un posto sicuro. Allora  estrassero il materiale dalle tasche dei giubbini in cui avevano riposto il  tutto e lisciarono quelle pagine che contenevano la loro storia. Non erano  quasi più abituati a tenere in mano dei fogli di carta e li toccarono con  cautela, timorosi di vederli frantumarsi in tanti piccoli pezzi da un momento  all’altro. Dopo quella sommaria ispezione camminarono veloci  verso il loro rifugio, sicuri che in quel fracasso la guardia non li avesse  riconosciuti. Ma nonostante questa constatazione, solamente quando  furono al sicuro tra le pareti familiari osarono parlare e, depositati i fascicoli  sulla scrivania, si sorrisero l’un l’altro. Ce l’avevano fatta. L’operazione  Reset, o almeno una sua piccola parte, aveva subito il primo  smacco. Iniziarono subito a fotocopiare le carte in modo da garantirsi  una copia nel caso gli originali fossero stati loro sottratti e un’ora dopo  sedettero, sfiniti, davanti alle tazze di caffè bollente che li avrebbero riportati  in vita. Assaporarono la bevanda con un misto di orgoglio e timore  per quell’impresa mirabolante. Dopo, riposte le tazze nel lavello,  si divisero il materiale tra loro. E iniziarono a leggere.           



























CAPITOLO 2


Monte San Savino 1900

Guardava le colline. Era lì da ormai undici anni eppure ancora faticava  ad abituarsi a quel paesaggio e fissava i paesi sparpagliati in  quella distesa che pareva non avere mai fine con un certo stupore. Aveva  fatto l’abitudine a tante altre cose: al parlare così diverso dal suo dialetto,  al clima più mite rispetto al rigore cui era avvezzo, anche alla natura  colma di oliveti e vigneti sconosciuti al suo paese. Ma a quello, lo  sentiva, non si sarebbe mai abituato. All’assenza delle montagne, a  quella linea di demarcazione tra cielo e terra che aveva caratterizzato la  sua infanzia e l’intera sua vita fino al momento di emigrare, a quella non  poteva rinunciare. A quello non poteva rassegnarsi. Romedio si staccò  con fatica da quel paesaggio. Il tepore della primavera accarezzava le  sue spalle e un lieve venticello muoveva ritmicamente i rami degli alberi  accanto a lui. Sarebbe stato bello perdersi in quel silenzio. Invece doveva  tornare indietro, tornare a casa, sebbene quella casetta in realtà per lui  rappresentasse solo un approdo temporaneo, un aggancio al mondo cui  fare riferimento ancora per un po’, forse uno o due mesi, sei, un anno al  massimo. Il tempo di raggranellare ancora qualche soldo e poi via di  nuovo verso le sue montagne. Almeno, era questo ciò che sperava. Era  giunto a Monte San Savino da emigrante, come tanti del suo paese del  Trentino che da tempo si dedicavano a vari mestieri in Toscana e in altre  regioni italiane. Andavano dove c’era bisogno di manodopera, dove servivano  artigiani capaci di modellare e aggiustare il rame e allora venivano  chiamati “paroloti” o uomini che segavano il legno e allora erano  chiamati “segantini”. Tra questi c’era stato anche chi era partito per la  Stiria e la Carinzia. Romedio, che era bravo a lavorare con le mani, aveva  scelto di essere uno dei “paroloti”, anche se in definitiva la sua non era  stata propriamente una scelta ma una sorta di obbligo imposto dalla miseria.  Al paese natio non si trovava più lavoro e a casa Romedio e la moglie  Albertina avevano già due ragazzi da sfamare. Un giorno, dopo la  Messa, Romedio si era fermato a parlare con alcuni compaesani che vivevano  le sue stesse difficoltà. Erano tutti uomini tra i trenta e i quarant’anni  con famiglia a carico e pochi fiorini in tasca.    «Ho sentito dire che in Toscana si lavora bene con il rame. Bartolomeo  è lì da diversi anni, dice che pagano bene» aveva detto Domenico,  “Menico”, coscritto di Romedio. Aveva cinque figli e campava con lavori  occasionali che gli venivano commissionati.  «E dove, in Toscana? dalle parti di Firenze?» aveva chiesto Romedio  che di Firenze conosceva le bellezze artistiche per aver letto diversi articoli  sulla “Domenica del Corriere”. Gli pareva talmente lontano un posto  del genere, per lui che non era neppure quasi mai uscito dalla val di Sole,  che non osava immaginare come si potesse organizzare un viaggio fin lì.  «No, a Monte San Savino. Mi pare sia dalle parti di Arezzo» aveva  detto Menico.  Così era nata in Romedio l’idea di provare, anche lui, a fare il “parolot”.  D’altra parte non doveva essere difficile, dopotutto da sempre riparava  tegami, pentole e tutti gli utensili che usava in casa. Si trattava  di raffinare la tecnica, fare un po’ di pratica, farci “la mano” insomma.  Quel giorno stesso, mentre si avviava verso casa, decise che ne avrebbe  parlato alla moglie. Inoltre, a sostegno della sua idea c’era anche la presenza  in quel luogo di Bartolomeo che avrebbe potuto aiutarlo per i  primi tempi. Gli serviva tutto il materiale, il carretto per riporlo e per girare  di paese in paese, e soprattutto una casa per sé e i suoi. Non aveva  nessuna intenzione di andarsene senza la sua famiglia. Lasciare in valle  sua moglie e i suoi figli avrebbe voluto dire mettere radici nel nuovo  luogo e questo lui non lo voleva. Desiderava solo trovare un lavoro per  vivere decorosamente, accantonare un po’ di soldi e tornare al paese.  Nel frattempo forse sarebbero nate nuove opportunità anche a Mezzana.  Così pensava mentre tornava a casa quel giorno dalla Messa, dopo aver  salutato Menico e gli altri radunati come al solito sul sagrato. Tornava a  casa con una speranza in più per il futuro.  Erano partiti un mese dopo, il tempo di imparare la tecnica di lavorare  i metalli con maestria dall’officina di Bortolo, il maestro ferraio.  Ogni pomeriggio Romedio passava dall’officina per carpire i segreti di  quel mago del ferro che sapeva tutto anche di ottone, rame, acciaio. Il  buio laboratorio si illuminava di una fioca lanterna a petrolio quando  calava la sera e Romedio un po’ osservava Bortolo impegnato nella sua  arte un po’ provava a realizzare utensili di rame sempre più impegnativi.  Dopo diversi tentativi infruttuosi si era reso conto che non bastava “raffinare  la tecnica”, avrebbe dovuto imparare quasi da zero. Bortolo sorrideva  quando lo vedeva arrabbiarsi per i suoi insuccessi, per il bordo di  una pentola che non correva regolare o una decorazione venuta male.  Sorrideva e commentava: “Ci vuole tempo” mentre come niente fosse  creava catene, ferri da fieno, zappe, martelli, serrature complicate e bellissime,  ma anche cornici e qualche oggetto per ingentilire la casa che  avrebbe venduto, forse, a qualche passante di città. I paesani non avevano  certo la possibilità di spendere in cose non necessarie. A Romedio  pareva che Bortolo lavorasse come sotto incantesimo tanto poco era lo  sforzo nel realizzare in un attimo quelle meraviglie, ma invece si trattava  di arte appresa da generazioni, tramandata nella famiglia come si tramandava  il nome e lui non sarebbe stato in grado di fare altro se non lavorare  i metalli. Ce l’aveva nel sangue, non riusciva ad immaginare una  giornata senza prendere in mano qualche attrezzo da forgiare. Già alla  fine del Settecento sulla piccola piazzetta del paese l’officina dei fabbri  lavorava a pieno ritmo e da allora era il punto di riferimento di tutti coloro  che cercavano attrezzi, da acquistare o da riparare, ma anche luogo  accogliente per fare filò la sera. Nelle sere d’inverno le famiglie dei dintorni  si raccoglievano nell’officina e nella piccola bottega attigua e mentre  fuori i fiocchi cadevano copiosi imbiancando le strade e i comignoli  delle case da cui usciva un sottile filo di fumo, nell’officina la fiamma del  focolare riscaldava le parole e i ricordi di quanti erano lì riuniti. In quelle  giornate di alunnato non era raro che Bortolo concludesse le sue lezioni  con pane e salame e due chiacchiere davanti ad un bicchiere di vino e a  Romedio la compagnia di quell’artigiano era doppiamente gradita. Bortolo  chiedeva notizie sull’idea di Romedio, che ormai non era più tale.  La moglie Albertina, Giovanni e la sorella Marina si preparavano infatti  al cambiamento imminente. La prospettiva di lasciare il paese non  piaceva a nessuno, ma nessuno osava opporsi. D’altra parte era ormai  impossibile continuare a vivere in ristrettezze e con i primi soldi Romedio  avrebbe potuto aiutare anche i genitori che avrebbero tenuto aperta  la grande casa in attesa del loro ritorno. Romedio teneva una corrispondenza  con Bartolomeo che volentieri si era incaricato di trovargli una sistemazione  a Monte San Savino. E finalmente un giorno giunse la lettera  in cui comunicava che la casa c’era e, se volevano, potevano partire  anche subito. La missiva arrivò un sabato mattina e Romedio riconobbe  subito in quella calligrafia minuta la scrittura di Bartolomeo. Aprì la  busta grigia con un misto di speranza e timore, senza capire se sentirsi  smarrito o contento. La data era di sette giorni prima. Romedio si chiese  come avrebbe fatto a sapere in tempo le notizie dal paese, una volta partito  per la Toscana, se la posta impiegava una settimana a coprire la distanza  fra le due località. E se fosse accaduto qualcosa ai genitori, mentre  era via? come avrebbe fatto a ritornare in tempo a Mezzana, in caso  d’emergenza? con questi interrogativi iniziò a leggere. Bartolomeo scriveva  che era disponibile fin da subito una casetta un po’ fuori paese che  i padroni affittavano agli emigranti come lui. Era un posto modesto,  senza pretese, ma avrebbe accolto Romedio e la sua famiglia per tutto il  tempo della loro permanenza. Scriveva anche che di “paroloti” c’era  grande richiesta e che avrebbe velocemente introdotto il compaesano in  quell’ambiente. Non parlava di soldi, ma pareva sottointeso che Romedio  avrebbe pagato l’affitto con i primi guadagni ricavati lavorando il  rame. Inoltre, aveva qualcosa da parte che gli avrebbe permesso di tirare  avanti per i primi tempi.  Romedio, che fino a quel momento era stato assorto nella lettura sul  ponte di legno che collegava l’aia alla strada, scese verso la grande casa  di pietra per comunicare la notizia alla moglie. Quella casa era stata costruita  dal nonno di suo padre nel Settecento, pietra su pietra, trasportando  il pesante carico a braccia dalle sponde del fiume Noce ed era  intrisa della fatica e del sudore della fronte di generazioni. Ora stava per  lasciarla. La mattina aprendo le finestre non avrebbe più scorto il bosco  al di là del fiume e i campi coltivati dove il sole, a primavera, arrivava  tiepido a scaldare la terra. Non avrebbe sentito il metodico canto del cuculo  a maggio e i cantori della Stella che all’Epifania passavano di casa  in casa ad annunciare la lieta novella. Con chi avrebbe parlato il suo dialetto,  a parte Bartolomeo che, forse, sarebbe ripartito mentre lui restava  in quel luogo? e se l’avessero costretto a parlare “in lingua”? chi avrebbe  capito i sottintesi, le burle riferite al paese e ai suoi abitanti? aveva pensato  spesso a questo in quei giorni, ma gli appariva tutto come qualcosa  di lontano e quasi immaginario. Ora stava lì con la lettera in mano e la  sua partenza era concreta, vera. Pensò ai suoi avi, ai suoi genitori che  non si erano mai mossi al di fuori del paese e a se stesso che per poche  volte si era avventurato fino in val di Non. Gli era sembrato un viaggio  eterno, fino a Dermulo. Come sarebbe stato, a paragone, quest’altro? la  moglie in quel momento gli venne incontro e, senza dire una parola,  capì. Era venuto il momento di preparare le valigie. Non avrebbero impiegato  molto tempo poiché non avevano quasi nulla a parte due cambi  di vestiti e oggetti vari che sarebbero serviti nella nuova casa in parte già  imballati. Albertina non aveva ancora trovato il coraggio di informare il  marito che, presto, ci sarebbe stata un’altra bocca da sfamare. Romedio  spalancò la porta di casa e, entrato in cucina, dove stavano tutti radunati,  disse solo: «Dopodomani si parte».  Nella cucina dalle pareti annerite dal fumo scese un silenzio irreale.  Rimasero tutto lì, con le mani in mano, muti e a occhi bassi, anche i bambini  che, per quanto piccoli, sembravano aver capito. I vecchi piangevano,  pensando a quanto tempo sarebbe trascorso prima di essere  ancora riuniti, tutti insieme, come in quel momento. E allora Romedio  capì che, nonostante le loro cose fossero impacchettate da qualche settimana,  nonostante avesse spiegato a moglie e genitori che quella sarebbe  stata una separazione temporanea, non erano pronti. D’altra parte  non poteva biasimarli: in fondo non lo era neppure lui. Se solo non ci  fosse stata la miseria, se solo i tempi non fossero stati così duri. Se solo  avesse avuto la possibilità di rimanere lì, nell’unico posto che sentiva di  poter chiamare casa. Bartolomeo gli aveva scritto di portare un abito  buono perché nel girare per paesi a vendere o riparare il rame avrebbero  avuto a che fare con la gente e bisognava rendersi rispettabili. Romedio  aveva un unico vestito buono, per la festa, comprato tre anni prima. Non  aveva denaro da spendere per un abito nuovo, perciò lo fece sistemare  dalla sarta del paese. Così nella valigia preparata per il viaggio trovò  posto il completo scuro giacca pantalone che la domenica indossava con  il cappello dello stesso colore portato un po’ di sbieco e che, insieme ad  una camicia e una cravatta chiara sarebbe stata la sua divisa da lavoro.  Albertina aveva preparato le cose dei bambini con un groppo in gola,  badando bene a non farsi scoprire mentre calde lacrime le scendevano  lungo le guance quando pensava all’abbandono del paese e della valle.  Mezzana non era il suo paese di nascita, ci era arrivata dopo aver sposato  Romedio da un borgo poco lontano dove ogni anno si festeggiava Sant’Agata,  patrona della comunità. Quelle festività erano le uniche occasioni  in cui alle ragazze era concesso un po’ di svago e dove era possibile  conoscere nuova gente. A Sant’Agata, che si festeggiava il 5 febbraio, la  giornata prevedeva la Messa la mattina e il Vespro la sera mentre, nel  pomeriggio, la banda suonava e si improvvisavano balli e canzoni in  piazza. Non era raro che nevicasse o fosse troppo freddo per stare all’aperto,  e allora la festa si teneva all’interno dell’osteria con qualche bicchiere  di vin brulè a scaldare gli animi. Albertina era una ragazza un po’  in carne, con un viso rotondo a incorniciare lunghi capelli castani che le  ricadevano sulle spalle. La bocca sottile e gli occhi piccoli e scuri le conferivano  un non so che di misterioso ma anche un piglio deciso. Proprio  a Sant’Agata aveva conosciuto Romedio. Era il 1885 e lei doveva compiere  a maggio ventisei anni. Era stata trascinata alla sagra, controvoglia,  da alcune ragazze della sua età desiderose di divertirsi e, per un giorno,  non pensare alla fatica del vivere. Fin da bambine erano abituate a sgobbare  in casa e nella stalla dalla mattina alla sera, a zappare, coltivare,  sarchiare, a tosare le pecore, a mungere le vacche, a filare la lana, a lavorare  insomma con qualsiasi tempo e stagione, anche la domenica e,  quando era proprio necessario, anche in caso di malattia non grave. Poiché  le uniche malattie classificate in questo modo erano la malaria, la  spagnola e il vaiolo, avevano poche speranze di sottrarsi ai loro doveri.  A parte quando era Sant’Agata e il pomeriggio poteva essere occupato  da balli e incontri più o meno interessanti. In quell’occasione però Albertina  era stanca dalla notte prima, quando con i genitori era rimasta  sveglia perché la vacca doveva partorire ma il vitello non ne voleva sapere  di nascere. Perdere un capo di bestiame significava in molti casi la  rovina di una famiglia, già di per sé povera. Per questo gli animali erano  curati con attenzione: la sopravvivenza di una vacca, di un maiale voleva  dire la possibilità di mangiare. Alla fine dopo ore di tribolazione il padre  era riuscito a tirar fuori il vitello che stava per soffocare e, invece, era  sopravvissuto. A quel punto era l’alba, già l’ora di mungere. La madre  era andata in cucina a metter su un po’ di caffè e, subito dopo, il lavoro  era ripreso. Albertina, stanca e assonnata, desiderava solamente andare  a dormire ma le amiche avevano tanto insistito e, alla fine, si era ritrovata  in piazza senza sapere come. Mentre le ragazze ballavano con alcuni  giovanotti venuti dai paesi vicini, Albertina sedeva sola sul muretto di  sassi a margine della strada, sentendosi fuori posto e avvilita perché nessuno  l’aveva invitata a ballare. Rimuginando su questo, non si accorse  di essersi addormentata. La svegliarono alcuni leggeri colpetti sulla  spalla. Un ragazzo, davanti a lei, piuttosto alto e magro, capelli corti e  neri e baffi ben curati, si tolse il cappello e si scusò per quella libertà che  si era preso. Albertina rise pensando che, se non l’avesse fatto, si sarebbe  probabilmente messa a russare davanti a tutti. Si alzò, sistemandosi la  gonna con le mani.  «Sarà meglio che mi avvii verso casa» disse, cominciando a sentire  un po’ di vergogna per quanto era accaduto.  Il ragazzo, che pareva sentirsi fuori posto quanto lei, si offrì di accompagnarla.  Lei non rifiutò, dopotutto cosa poteva esserci di male? si  allontanarono dalla piazza diretti al paese di Mestriago dove lei viveva.  Ad un certo punto lei gli porse la mano:  «Sono Albertina» si presentò.  Lui, sorpreso e un po’ confuso da quell’iniziativa (stava pensando da  un po’ a come farle conoscere il suo nome) rispose: «Romedio».  Proseguirono parlando del più e del meno quando, arrivati sulla  porta di casa, lui chiese se poteva rivederla. Albertina disse che, se voleva,  la domenica dopo potevano vedersi a Messa. La settimana dopo  Romedio sedeva in uno dei banchi di legno della chiesa di San Giovanni  Battista e Albertina si era messa il fazzoletto buono solo per lui. L’anno  dopo erano ancora a Sant’Agata, ma da marito e moglie e Albertina era  arrivata con il carro da Mezzana.  Nella grande casa di pietra nella parte alta del paese si era subito trovata  a suo agio. Con Albertina e Romedio vivevano anche i genitori di  lui, Giacomo e Caterina, che avevano accolto calorosamente la nuora.  Da parte sua Albertina si era presto affezionata ai suoceri e inoltre la  casa era grande e consentiva di avere i propri spazi. C’erano le vacche  da accudire nella stalla raggiungibile da una scala di pietra che partiva  poco dopo l’ingresso e che portava anche dalle pecore, ai recinti delle  galline e dei conigli ed alle cantine. Il lavoro non mancava, ma Albertina  era abituata alla fatica. Di tanto in tanto percorreva la stradina che partiva  dalla casa e raggiungeva i prati e i boschi sotto la frazione di Roncio.  Non camminava mai fino alla fine, solo quel tanto che bastava per vedere  in lontananza le case del suo paese che aveva sempre nel cuore. I primi  tempi erano trascorsi sereni nonostante la povertà e Albertina si era fatta  benvolere da quanti abitavano quel rione.  Le donne si riunivano a lavare i panni nella fontana adiacente al  ponte di legno che portava nell’aia dove di sera si tenevano filò che duravano  ore. Si parlava del più e del meno, ma ad Albertina quelle riunioni  erano servite per capire molte cose del paese e dei suoi abitanti. Con un  po’ di coraggio dopo la timidezza iniziale, anche lei aveva iniziato a raccontare  episodi del suo paese integrandosi in quel circolo di donne e uomini  che sarebbero stati i suoi vicini da lì in avanti.  Nel 1886 ci fu un’epidemia di colera. La gente era terrorizzata dalle  epidemie, che già in passato avevano colpito la popolazione, come il colera  nel ’73, la scarlattina e, prima ancora, il vaiolo nero che aveva ucciso  alcune persone tra atroci sofferenze. La paura del contagio era così radicata  che nella precedente epidemia l’autorità comunale aveva deliberato  l’obbligo di disinfezione per tutti gli individui che arrivavano da  fuori distretto e intendevano fermarsi in paese o semplicemente passare.  Le case del paese colpite dal colera erano evitate da tutti, tranne dal  medico che, giungendo dal paese di Cusiano a cavallo, bussava a quegli  usci con la borsa sotto braccio e una certa apprensione. Pochi sopravvivevano.  Chi aveva il colera passava giorni con la febbre alta alternata a  brividi di freddo, in quasi completa disidratazione e affetto da crampi  muscolari. Al terzo giorno in quello stato, i casi meno gravi cominciavano  a risolversi. Ma quasi nessuno era sfuggito alla morte. La gente sapeva  che la febbre e i brividi erano alcuni sintomi della malattia e  capitava sempre qualcuno che, sentendosi la temperatura del corpo più  alta del normale e constatato che si trattava di febbre, dopo un po’ era  convinto di tremare di freddo e si diagnosticava da sé di avere il colera.  In realtà molte volte era influenza e la paura del contagio favoriva  quella sorta di autosuggestione. D’altra parte anche l’influenza aveva  mietuto parecchie vittime e il timore non era quindi del tutto infondato.  Quel primo anno nella nuova casa di Albertina fu segnato dalla morte  di alcuni vicini vittime del morbo. Per primo c’era stato Candido, l’uomo  che abitava nella casa sopra la fontana, portato via in una settimana. Poi  l’avevano seguito Serafina, Paolo, Luigia. Tutte persone sui quarant’anni  che fino a poco prima avevano sempre goduto di buona salute e poi, da  un giorno all’altro, erano deperite fino alla morte. Il rione appariva deserto.  A parte la necessità di uscire per lavorare nei campi o per pascolare  le bestie, nessuno più si fermava alla fontana o per le strade a fare  due parole, nel terrore di contrarre la malattia. Don Giovanni, in accordo  con il medico, aveva deciso di creare un lazzaretto provvisorio in cui  ospitare i malati. Si trovò l’accordo con il proprietario di un maso isolato  al paese, vicino al bosco, raggiungibile da una stradina ripida che partiva  dalle segherie. Così un mattino tutti i malati, adagiati sui carri trainati  dai cavalli, furono portati via dalle loro case verso il nuovo ricovero. Albertina  e Romedio, fermi sul portone di casa, avevano osservato la mesta  processione passare anche dal loro rione e avevano azzardato un cenno  di saluto ai malati che sfilavano davanti a loro. Nessuno aveva risposto,  o perché troppo deboli o per la febbre che confondeva le cose e non permetteva  loro di capire che cosa stava accadendo. Albertina, sospirando,  tornò sui suoi passi ed entrò in cucina.  «Sono andati?» chiese la suocera che non aveva osato assistere al  passaggio dei carri.  «Sì» rispose Albertina sedendosi sulla panca vicino al focolare «speriamo  siano gli ultimi». Albertina viveva ormai nella paura di prendere  quella malattia ed essere allontanata da tutti, rinchiusa nella solitudine  del lazzaretto.  «Adesso, Albertina, cominceranno i falò, come hanno sempre fatto»  commentò la suocera, ricordando come, anche nelle epidemie precedenti,  tutto ciò che era stato a contatto con il malato era stato bruciato.  Non passò qualche ora che, dalla piazzetta in cima al paese dove si  lavorava il ferro, si alzarono alte le fiamme. I familiari dei contagiati avevano  accatastato insieme tutti gli indumenti, le lenzuola, i letti e gli oggetti  toccati dai loro congiunti. Romedio e Albertina, come molti altri  dalle case vicine, osservavano in silenzio il rogo. I modesti giacigli di  legno si sfaldavano velocemente insieme alla biancheria del malato e a  messali, libretti, qualche immagine cara che i contagiati avevano tenuto  con sé sperando di trarne conforto. Lo spettacolo, unito alla processione  dei malati condotti via poco prima, aveva lasciato tutti gli abitanti increduli  e sconfortati. Romedio staccò gli occhi dalla pira ardente, alimentata  di continuo dagli oggetti dei malati e si rivolse alla moglie: «Vieni via.  Andiamo a casa» le disse, rendendosi conto che la moglie era sconvolta.  Sapevano tutti che quasi nessuno dei malati sarebbe tornato dal lazzaretto.  Eppure c’era nell’aria una specie di vergogna per aver bruciato tutto  ciò che apparteneva a quella gente e anche se non sarebbe tornata a reclamare,  la sensazione era quella di aver dato atto ad una profanazione.  Come se non bastasse, a quella tragedia era seguito un inverno che  non ne voleva sapere di terminare. I primi fiocchi erano caduti già ai  primi di ottobre e a fine mese la neve aveva bloccato le strade e costretto  tutti a rintanarsi in casa. Ne era caduta tanta che non fu possibile nem  meno celebrare la funzione per Ognissanti al cimitero. Dal balcone in  legno della casa Romedio, la moglie e i genitori avevano guardato più  giù, verso il camposanto, e recitato qualche preghiera per i loro morti.  Di più non si poteva fare. Le nevicate si erano susseguite numerose tanto  che alla fine fu necessario scavare dei veri e propri tunnel nella neve per  spostarsi e fino a marzo l’inverno non ne aveva voluto sapere di allentare  un po’ la sua morsa. Faceva freddo tanto che la legna accatastata in previsione  dei mesi più rigidi a molti non era bastata e verso febbraio erano  stati costretti a togliere le porte dai cardini e bruciare anche quelle. Alla  fine anche l’ultima neve si era sciolta ma il terreno rimase duro per settimane  e fu impossibile iniziare i lavori nei campi e nell’orto. Quando finalmente  arrivò la primavera e poi l’estate, nonostante la buona volontà  dei contadini la terra non riuscì a produrre quasi nulla. L’erba era scarsa  e il fieno che si falciò per gli animali talmente poco che molte bestie perirono  di denutrizione. Cominciò in questo modo il periodo di miseria  che costrinse molti ad emigrare altrove alla ricerca di un lavoro. Non era  la prima volta che accadeva. Già all’inizio dell’Ottocento in tutta la valle  intere famiglie avevano abbandonato i loro paesi per stabilirsi in America  o in Australia in cerca di fortuna. Qualcuno dopo un po’ di anni era  tornato in valle, con un po’ più di soldi in saccoccia e l’esperienza di chi  ha visto il mondo. Ma la maggior parte, se riusciva a stare meglio, non  tornava più. Sulla nostalgia prevaleva la troppa paura di ripiombare  nella miseria e di assaggiare ancora l’amaro sapore della fame. In seguito,  dopo gli anni Settanta, aveva cominciato a diffondersi l’uso di lavorare  come emigranti stagionali in zone più vicine a casa come la  Pianura Padana e varie regioni italiane. Erano sempre dei posti lontani,  rispetto a quella loro valle posta sotto il controllo degli Asburgo, per  quanti si caricavano lo zaino in spalla e, valigia in mano, partivano dai  luoghi della loro infanzia, ma almeno era possibile tornare in paese ai  primi freddi. Si lavorava come ramai, detti “paroloti” , nel commercio  ambulante, come arrotini, salumai, segantini, intessendo contatti che  permettevano spesso agli emigranti dello stesso paese di aiutarsi a vicenda.  Era accaduto così anche a Bartolomeo, partito per la Toscana grazie  all’aiuto di un altro emigrante suo compaesano che gli aveva indicato i  posti dove la richiesta di oggetti di rame era maggiore. All’inizio era partito  da solo, ritornando in paese ad ottobre e ripartendo in primavera.  In seguito però la necessità di non perdere la clientela l’aveva spinto a  mettere su una sua attività commerciale ambulante piuttosto ben avviata  che non gli permetteva più di allontanarsi. Così la moglie e i figli l’avevano  raggiunto e ormai vivevano a Monte San Savino da cinque anni. A  casa di Romedio e Albertina nel frattempo erano arrivati due bambini:  Marina e Giovanni e ormai la preoccupazione per quella situazione di  povertà era costante. In casa ora erano in sei, c’era poco lavoro e i prodotti  dei campi e dell’orto bastavano appena a sfamarli. Romedio, che  sapeva fare un po’ di tutto, insieme al padre si era ingegnato in differenti  lavori di tipo occasionale, offrendosi come manovale, aggiustando pentole,  portando al pascolo pecore e capre. Tuttavia i fiorini che riusciva a  guadagnare erano sempre troppo pochi, i bambini crescevano emaciati  e ormai in tavola si portava quasi sempre latte e qualche fetta di polenta,  niente più. I genitori avrebbero potuto cavarsela meglio senza loro quattro  e lui, emigrando in qualche posto non troppo lontano, avrebbe garantito  una vita più dignitosa ad Albertina e ai bambini. Poi, qualche  soldo si poteva spedire anche a casa. Nonostante questi ragionamenti  su cui si arrovellava da mesi, Romedio aveva tergiversato a lungo prima  di prendere quella decisione.  Ogni volta trovava una scusa per rimandare: i bambini ancora troppo  piccoli, la brutta stagione, qualche malanno dei suoi. Sapeva che quella  era l’unica soluzione per uscire dalla miseria, ma non riusciva a tollerare  l’idea di lasciare il paese, i suoi affetti, tutto. Fino alla domenica in cui,  sentendo i discorsi sul sagrato, aveva capito che era giunto il momento  anche per lui di staccarsi da ogni cosa. Si era messo in contatto con Bartolomeo  giurando a se stesso che non avrebbe fatto la sua fine, non si  sarebbe stabilito per anni in un posto e appena possibile sarebbe tornato  a casa. Ne aveva parlato ai genitori che avrebbero voluto aiutarlo ma  purtroppo non avevano i mezzi, ad Albertina che si era detta fin da subito  pronta a seguirlo ovunque, perfino ai bambini che, anche se troppo  piccoli, dovevano sapere e ricordare da dove provenivano. Quando  venne il momento però, la partenza sembrò più un addio che un arrivederci.  Avevano sistemato pacchi e provviste sul carro già la sera prima,  quando nella cucina Romedio ricordò ai genitori più e più volte il nome  del luogo in cui sarebbe stato con la famiglia, dimentico che già aveva  scritto l’indirizzo almeno una decina di volte su un quadernino a quadretti  che in casa serviva per annotare appunti sui prezzi del bestiame  ed altre faccende del genere. Erano arrivati anche i genitori e i fratelli di  Albertina per salutarla visto che il giorno dopo sarebbero partiti presto  per falciare i prati. Anche i bambini erano rimasti svegli, quella sera,  forse per aver percepito che qualcosa d’importante stava per accadere.  Nessuno era stato capace di dire granché. Erano tutti lì colmi di commozione  ma i sentimenti che li univano, sottintesi e sempre trattati con  grande discrezione, non potevano esser messi in piazza. Avevano bevuto  un bicchiere di vino, parlato del raccolto di quella stagione, della festa  di San Matteo che quell’anno a causa della moria di bestiame rischiava  di non essere organizzata. A parte Romedio che, come se avesse perso  la memoria delle sue azioni seguitava a ricordare agli altri l’indirizzo del  loro soggiorno toscano, non si toccò l’argomento della partenza per tutta  la serata. Solo al momento di congedarsi dalla famiglia Albertina sentì  più forti le strette di mano e gli abbracci dei suoi e i loro occhi soffermarsi  di più nei suoi. Li lasciò andare facendo segno di sì con la testa,  come se gli altri le avessero raccomandato di tornare presto, ma in realtà  non aveva parlato nessuno. Nella grande casa di pietra nessuno, ad eccezione  dei bambini, riuscì a dormire quella notte. Romedio pensava alla  sua infanzia in quei vicoli, quelle strade, tra quella gente, pensava agli  odori, i sapori, i profumi e i suoni che sempre l’avevano accompagnato  come una melodia da quando aveva aperto gli occhi, sempre uguali e per  questo ancora più cari.  Albertina portava dentro di sé un dolore doppio, quello per l’abbandono  del paese natio e di quello che aveva appena imparato a conoscere.  Pensavano entrambi a come sarebbero cresciuti i loro figli, sradicati  dalle loro radici, probabilmente senza il ricordo dei luoghi che li avevano  visti nascere e pensavano che dovevano iniziare subito a raccontare del  paese e scongiurare così il pericolo che, divenuti più grandicelli, non ne  sapessero nulla.  Si addormentarono brevemente solo quando ebbero lo stesso pensiero,  il piccolo conforto nello sperare che la loro vita in terra toscana  non sarebbe durata che qualche anno e che, un giorno neppure troppo  lontano, avrebbero percorso lo stesso itinerario al contrario. Fu la madre  di Romedio la prima ad alzarsi quella mattina. Sul focolare aveva preparato  di buon’ora il latte per la colazione, cercando di non pensare che  quelle erano le ultime ore con suo figlio e i suoi nipoti. Sapeva che l’intenzione  di Romedio era quella di non stabilirsi in Toscana a lungo, ma  non si poteva mai sapere come sarebbero andate le cose. Magari la prosperità  dei luoghi che si accingevano a raggiungere era tale da far dimenticare  quei buoni propositi. Non era la prima volta e non sarebbe  stata l’ultima che degli emigranti decisi a tornare quanto prima al paese  poi non si erano mai più visti. Il padre di Romedio, fingendo di dover  controllare il cavallo prima della partenza di figlio e nuora nascose un  sacchettino di tela marrone con pochi fiorini tra i pacchi riposti il giorno  precedente. Non era molto ma sapeva che alla famigliola sarebbe servito.  In quelle settimane, mentre il figlio imparava il mestiere da Bortolo ferraio,  lui aveva aiutato alcune famiglie impegnate a tagliare le piante per  la legna nel bosco ed era riuscito a racimolare qualcosa. Romedio e Albertina,  una volta alzati, avevano preparato i figli e preso le loro ultime  cose. Albertina si guardava intorno in quella casa come a voler fissare  ogni particolare nella sua mente, Romedio appariva quasi scontroso,  burbero, ed era il suo modo per prendere le distanze da quanto stava accadendo.  Consumarono in silenzio la colazione e, quando uscirono dal  portone d’ingresso, trovarono radunati sulla via tutti gli abitanti del  rione. Salutarono tutti ringraziandoli per quell’improvvisata, senza versare  lacrime che invece sgorgavano dagli occhi di molti.  I nonni salutarono Marina e Giovanni che con le loro manine continuavano  a fare ciao alla gente senza rendersi conto che quella non era  una gita. Poi Romedio li caricò sul carro e, mentre Albertina li raggiungeva  dopo aver salutato i suoceri, tornò verso i genitori. Strinse la mano  al padre, abbracciò la madre con fare un po’ freddo; i genitori se ne accorsero  e provarono dolore per quel comportamento distaccato del figlio.  Il carro si mise infine in marcia tra la folla. Albertina, che sedeva dietro  con i figli, spostando un pacco notò il sacchettino e lo porse a Romedio.  Questi lo prese, lo aprì e, con le lacrime agli occhi, capì che era stato  suo padre a nascondere quei fiorini. Erano già sulla strada per il cimitero  quando Romedio, fermando il carro con l’intenzione di rimediare al saluto  frettoloso che si era costretto a riservare al padre e alla madre, li  vide fermi, in cima alla strada, che lo guardavano andarsene, in silenzio.  Allora si alzò in piedi sul carro, sventolò energicamente una mano e il  cappello che aveva in testa e gridò con fare canzonatorio: «Guardate che  torno, eh!» .  I genitori, rinfrancati un po’ da quelle parole, un po’ dal fatto di vederlo  comportarsi con loro di nuovo come al solito, risposero al saluto e  lo seguirono con lo sguardo fin dopo la curva e, dopo ancora, dalla stradina  che guardava verso Commezzadura. Arrivati a Mestriago, Albertina  guardò speranzosa verso la sua casa. Sapeva che i suoi erano nei campi,  sapeva che sulla finestra non ci poteva essere nessuno. Eppure guardò  lo stesso, perché era la sua casa. Come previsto non c’era nessuno, le imposte  erano accostate per non fare entrare il caldo soffocante di quei  giorni. Albertina ne rimase molto delusa, aveva sperato di vedere ancora  una volta almeno sua madre. Romedio non si fermò, aveva notato la delusione  della moglie e voleva allontanarsi il prima possibile per non farla  soffrire ancora di più. Spronò il cavallo a proseguire ma, quando stavano  per lasciare il paese, li videro sulla strada.  «Se avessi immaginato che ti avrebbe portato così lontano, stai sicura  che non ti lasciavo andare alla festa di Sant’Agata» scherzò il padre. Tutti  risero e la tensione si allentò un po’.  Erano tutti lì, i genitori, i fratelli, i paesani che avevano vissuto con  lei nella stessa contrada. Albertina, accorgendosi di non essere stata dimenticata,  ne fu profondamente commossa. Giovanni, credendo di essere  già arrivato a destinazione, riuscì a scendere dal carro e scappare  nei prati e solo alla fine, quando si erano rinnovati i saluti e le racco-  mandazioni, fu riacciuffato e rimesso nel carro con la sorella che era invece  rimasta ad ascoltare i discorsi degli adulti. Quando si sedettero di  nuovo, pronti a ripartire, la madre allungò un pacchetto ad Albertina.  «Vedi di tenerlo bene, che non si dica che i montanari sono dei poveretti.  E cerca di averlo ancora per quando torni».  Albertina aprì il pacchetto e vi trovò dentro un fazzoletto della domenica,  da mettere intorno ai capelli, ricamato con le sue iniziali. Cercò  di ringraziare la madre ma un nodo le chiudeva la gola. Salutò con la  mano, senza dire niente, mentre il carro ripartiva. Solo allora iniziò a  piangere, singhiozzando, imitata da Romedio che ormai non riusciva più  a trattenersi. Passò molto tempo prima che riuscissero di nuovo a parlare. 



CAPITOLO 3


Dopo quei momenti di profonda commozione e già di nostalgia  per quanto lasciavano, superato l’antico ponte che separava da secoli la  valle da quella confinante, Romedio e Albertina scoprirono a poco a  poco un mondo di cui ignoravano l’esistenza. Solo Romedio una volta si  era avventurato oltre i paesi della valle e per entrambi ciò che gli occhi  scorgevano mentre il carro avanzava rappresentava una novità. Videro  altre montagne ed altri paesi, dapprima simili al loro poi più estesi, videro  il torrente Noce correre tra i sassi tra strette gole e pendii e aprirsi  invece, tra i campi, il placido Adige. La gente li osservava passare curiosa,  qualcuno accennava un saluto. Man mano che si abbassavano di  quota scorgevano nuove colture e un nuovo clima mite ben diverso dall’aria  fresca dell’alta montagna. Si erano organizzati alla meglio, portando  provviste per il viaggio e un telo da stendere sopra il carro sotto  cui ripararsi di notte e per fortuna il tempo era stato clemente e non avevano  avuto il fastidio della pioggia. Si fermavano per mangiare, sgranchirsi  le gambe e consentire ai bambini di correre un po’ dopo tante ore  fermi. Romedio e Albertina, come in un tacito accordo, non avevano più  parlato del paese, discutevano invece su ciò che li attendeva e come si  sarebbero sistemati una volta arrivati a Monte San Savino. Del posto sapevano  poco, perché Bartolomeo si era limitato a scrivere notizie che riguardavano  prevalentemente il lavoro, la richiesta di rame tra i villaggi,  la casetta che era pronta per loro.  «Che dite, ci saranno anche lì gli abeti e i larici come nei nostri boschi?  » aveva chiesto ad un certo punto Albertina, che amava l’ambiente  in cui era cresciuta fino ad allora e sperava di ritrovarlo anche nella  nuova terra che li avrebbe ospitati a breve.  Romedio, che teneva le briglie del cavallo ormai stanco dopo ore e  ore di cammino, restò zitto per un po’. Poi, continuando a guardare  dritto davanti a sé rispose: «Non so. Ma credo non ci siano neanche le  montagne» disse con un sospiro.  Albertina, costernata, l’aveva guardato bene in viso per capire se  scherzasse. Le pareva incredibile che potesse esistere un luogo privo di  cime. Da quando aveva aperto gli occhi sul mondo le aveva sempre viste,  come sarebbe stato vivere senza quella presenza che lei aveva sempre  dato per scontata?  «Ci saranno molte cose a cui dovremo abituarci» disse infine Albertina.  Intuiva che stava per iniziare per tutti loro una vita differente da  quella che avevano conosciuto fino ad allora. Anche il paesaggio sarebbe  stato diverso, e la gente, e i costumi.  Romedio non rispose. Non le accennò delle cartoline che gli aveva  mostrato Menico, una delle ultime domeniche al paese, spedita dalla Toscana  in Trentino da alcuni emigranti stagionali. L’immagine stampata  sul fronte non era di Monte San Savino, ma pur sempre di uno dei paesi  in provincia di Arezzo, anzi della stessa valle che comprendeva anche  quel comune. Si vedevano case, prati e ancora case e prati e colline qua  e là, l’occhio spaziava senza ostacoli e la terra si congiungeva con il cielo  e le nuvole. Romedio ne era rimasto impressionato senza sapere perché.  Solo più tardi, ragionando su ciò che aveva visto, finalmente aveva capito:  le montagne non c’erano. La scoperta l’aveva scosso profondamente.  Si era chiesto come si potesse vivere in un posto senza la  protezione delle montagne, in un mondo piatto modellato solo da dolci  collinette. Insieme alle montagne non ci sarebbe stata la vegetazione  che caratterizzava la sua valle e chissà che alberi avrebbero sostituito i  pini, i larici, gli abeti, i noccioli, le betulle, i faggi. Chissà che animali abitavano  quei posti, chissà quali feste celebrava la gente, che cosa mangiava,  come si vestiva, come parlava.  Spaventato da una tale prospettiva di cambiamento, Romedio aveva  quasi deciso di rinunciare al viaggio. Poi però la necessità di uscire dalla  loro condizione di miseria aveva avuto la meglio, ed erano partiti. Romedio  si era imposto di non raccontare alla moglie le sue scoperte per  non renderle ancora più penoso il distacco e la reazione della moglie alla  risposta sulle piante l’aveva convinto che era stato meglio così.  I giorni passavano lenti sul carro. Romedio doveva fermarsi sempre  più spesso per abbeverare il cavallo a qualche fontana, perché il caldo  stava diventando insopportabile. Mentre lui svolgeva quel compito non  era raro che Giovanni e Marina trovassero altri bambini con cui giocare,  in attesa di ripartire, e che Albertina si mettesse a raccontare del loro  viaggio ai curiosi che incontravano sulle piazze e che, saputo della loro  odissea, a volte offrivano loro pane a formaggio. Si rendevano conto di  avere un aspetto pietoso, nonostante tutte le sere cercassero di lavarsi  alla bell’e meglio vicino ai fiumi che incontravano. Ma erano in viaggio  da oltre una settimana e la polvere delle strade sollevata dal passaggio  del carro aveva intriso i loro capelli e i loro vestiti. Inoltre erano stanchi,  provati dal sole che incessantemente batteva sulle loro teste, dai lamenti  di Giovanni e Marina che volevano scendere e non potevano, dalla mancanza  di un letto su cui riposare. Pareva loro che quel cammino fosse  eterno e che mai sarebbero giunti a destinazione. Ma quindici giorni  dopo aver intrapreso il viaggio, giunsero a Monte San Savino una domenica.  Albertina stava zitta da quando, svegliandosi diversi giorni addietro, aveva notato sconvolta che effettivamente le montagne non c’erano  più, soppiantate da basse colline verdi. Romedio a quella vista si era immalinconito  a tal punto che in cuor suo malediceva il giorno in cui aveva  deciso di partire e avrebbe voluto solo girare il carro e tornare indietro.  Ma, ormai, erano lì. Il paese non suscitò in loro nessuna emozione particolare.  Era un villaggio di case basse, con tegole in cotto rosse e ulivi e vigneti  si perdevano a vista d’occhio. All’entrata del paese, dove erano giunti  una mattina presto, ai lati della strada erano stati accolti dagli occhi indagatori  di alcuni abitanti fermi ad osservare quella curiosa famigliola.  Si sentivano come bestie da circo, scrutate da individui sconosciuti  pronti a cogliere nei loro gesti qualche stravaganza capace di suscitare  ilarità. I bambini, solitamente irrequieti, stavano fermi e muti sul carro  quasi consapevoli di essere l’oggetto dell’interesse paesano. Albertina  accennò un saluto cui qualcuno rispose. Le parve un buon segno e si  sentì un po’ sollevata alla vista di gente che conosceva l’educazione.  Aveva immaginato il posto in cui stavano per andare abitato da gente  mezza selvaggia, un po’ come stava accadendo in quel momento alla popolazione  di Monte San Savino che li aveva visti arrivare.  Suo malgrado, le sfuggì un sorriso, pensando a quanto era stata ingenua.  D’altra parte, per lei che non era mai uscita dalla valle, tutto era  nuovo e misterioso: non sapeva che anche molto al di là delle montagne  di Trento la gente era come loro. Le pareva di aver viaggiato come un’avventuriera  alla scoperta di terre remote e si sentiva un poco affranta nel  costatare che non avevano scoperto niente di nuovo. Romedio, lasciate  le briglie del cavallo, scese dal carro per chiedere dove stesse di casa Bartolomeo.  Si tolse il cappello e si avvicinò timidamente ai presenti.  «Buongiorno, sapete dirmi dove abita Bartolomeo Ravelli?» chiese.  Bartolomeo, che pur avendo lo stesso cognome non era suo parente, gli  aveva scritto dove stava di casa ma, una volta giunto in paese Romedio  aveva perso del tutto il senso dell’orientamento. Si guardava intorno alla  ricerca della casetta bianca dalle imposte rosse ma ogni abitazione gli  pareva identica all’altra.  Ci fu un certo brusio non appena Romedio scandì le parole. Alcuni  ragazzini presero a fargli il verso, imitando la cadenza della sua pronuncia,  tanto diversa dalla loro. Per un momento nessuno parlò. Romedio  si guardava intorno senza sapere che fare, finché dal gruppo si staccò un  uomo dalla faccia bonaria che sorrise a Romedio incoraggiante.  «Vi ci porto io, da Bartolomeo. Abita proprio accanto a casa mia, in  via Seteria. Venite su, che sarete stanchi» ripose.  «Grazie, salga sul carro che facciamo prima» disse Romedio, contento  di aver trovato qualcuno in grado di aiutarlo.  L’uomo si accomodò e, esauriti i convenevoli, li guidò per una viuzza  stretta lastricata di sassi. Intanto, Romedio pensava alla buffa parlata di  quella gente. Anche lui avrebbe avuto voglia di far loro il verso. Il carro  proseguiva spedito mentre l’uomo, che rispondeva al nome di Andrea,  interrogava i nuovi venuti. Nel frattempo sugli usci e dietro alle finestre  delle case erano comparsi altri curiosi.  «Sicché venite dal Trentino, come Bartolomeo, del resto».  «Sì, proprio dal suo stesso paese. È stato lui a dirmi di venire qui.  Cerco lavoro» disse Romedio.  «L’avevo capito. Non si lascia la propria terra se non per un motivo  grave. E la miseria è forse il più grave di tutti».  Romedio annuì, pensando ai suoi. Aveva promesso di scrivere non  appena arrivati in Toscana. Sapeva che al paese i genitori erano preoccupati  e attendevano con ansia notizie sue e della sua famiglia. L’uomo  intanto li osservava con fare amichevole. Ne aveva vista parecchia di  gente così, in cerca di una vita migliore lontana dalla miseria, ed era  gente che lo inteneriva per l’ingenuità ma al contempo la determinazione  con cui si muoveva in un luogo che non era il proprio. Guardò i bambini  che dopo quel viaggio durato troppi giorni non sembravano più avere  neppure la forza di parlare e provò pena per loro. Nel frattempo il carro  avanzava per le vie del centro seguendo le istruzioni impartite dall’uomo.  Anche inoltrandosi per le strade la situazione non era cambiata e  dalle finestre e dagli usci si vedevano ovunque persone intente a scrutare  i nuovi venuti, provocando in Albertina un senso crescente di disagio.  Pensava al paese, dove tutti si conoscevano e non c’erano occhiate  curiose a seguirti ad ogni passo e la gente parlava lo stesso dialetto senza  che nessuno si burlasse per una pronuncia diversa. Era tra la sua gente  allora, ora non lo era più.  La malinconia si fece strada nel suo cuore e si chiese se sarebbero  riusciti a vivere in quel luogo. Sperava di sì ma allo stesso tempo desiderava  il contrario: se Romedio si fosse reso conto che le cose non andavano,  forse sarebbero tornati tutti a casa in breve tempo.  Si vergognava dei propri pensieri e non li avrebbe mai espressi ad  alta voce, eppure non poteva impedirsi di tornare con la mente a quella  possibilità di fuga. Romedio intanto rispondeva alle domande dell’accompagnatore  sempre più agitato: non era abituato a raccontare i fatti  suoi al primo venuto e ne era un po’ infastidito anche se cercava di non  darlo a vedere. Inoltre era stanco, affamato e preoccupato per la sorte  della sua famiglia. Tutte cose che la guida aveva inteso perfettamente  poiché da tempo conosceva il carattere riservato della gente di montagna,  ma aveva intavolato un discorso solamente per farli sentire più a  loro agio in mezzo a quella folla di curiosi. Si rese conto però che quello  non era il momento giusto per cercare di familiarizzare e non chiese più  nulla, limitandosi a dire dove svoltare per raggiungere la casetta. Il carro  si mosse in quell’intrico di viuzze fino a giungere davanti ad un’abitazione  bianca con le imposte rosse, proprio come era stata descritta da  Bartolomeo nelle lettere a Romedio, ma la porta era chiusa e così le finestre.  Romedio ebbe un attimo di terrore: e se non avesse trovato  l’amico, cosa avrebbe potuto fare in quella terra sconosciuta? Iniziò a  sudare freddo e non era certo colpa del clima.  «Eccoli qui! ce ne avete messo di tempo!».  Una voce proveniente dal fondo della strada scosse Romedio dalle  sue tristi riflessioni. Romedio e Albertina scesero con un balzo dal carro,  correndo nella direzione dell’uomo e gli si gettarono letteralmente addosso  una volta raggiunto, quasi fosse l’unica ancora di salvezza per non  perdersi in quel luogo. Bartolomeo li abbracciò commosso. Guardandoli,  notò che anche i suoi compaesani avevano gli occhi rossi. Insieme, sembrava  loro di aver ritrovato un pezzo della loro terra. Provenivano da un  identico luogo ed avevano un passato in comune. Questa sarebbe stata  la loro forza.  «Via via, non è poi così male qui, una volta fatta l’abitudine. E la  gente non morde» rise abbracciando con lo sguardo coloro che non avevano  tolto gli occhi di dosso ai viaggiatori, appartati dietro le finestre o,  più spudoratamente, sui balconi e i muretti a fianco delle abitazioni.  «Come mai c’è tutta questa gente in giro?» domandò Romedio.  «Perché è domenica» rispose Bartolomeo, rendendosi conto che  l’amico doveva aver perso la cognizione del tempo. Romedio assentì con  il capo e, guardando Albertina, capì che nemmeno lei si era ricordata  che giorno era. La guida, nel frattempo, si era permessa di far scendere  i bambini e si era avvicinata al gruppo.  «Caro mio, se continua così andrà a finire che nel nostro paesello ci  saranno più trentini che toscani» scherzò rivolgendosi a Bartolomeo.  «Che vuoi farci, Andrea, se la maestria di noi 'paroloti' è apprezzata  solo qui da voi?» ironizzò lui a sua volta.  Marina e Giovanni, mentre gli adulti parlavano, si erano seduti su  una panca fuori dalla casa, all’ombra, e guardavano incuriositi i dintorni.  Anche loro si erano accorti dell’assenza delle alte montagne cui erano  abituati e osservavano perplessi le basse colline e i vigneti. Notarono  anche boschi di conifere e latifoglie simili ai boschi della loro valle, ma  senza le cime saettanti verso il cielo e pensarono che non era la stessa  cosa. Bartolomeo li osservava e capiva perfettamente il loro smarrimento,  uguale al suo il giorno in cui era arrivato. Sapeva che ci sarebbe  voluto del tempo, per tutti loro, per ambientarsi. A loro favore c’era la  presenza di altri trentini, provenienti dalle valli, giunti in paese già da  qualche anno, che avrebbero potuto condividere quella nostalgia e quei  ricordi con loro pur continuando a vivere a Monte San Savino.  “Su, entriamo in casa. Beviamo qualcosa e poi vi aiuterò a sistemarvi” disse Bartolomeo aprendo la porta ed invitando anche Andrea a  seguirli.  Si accomodarono in una cucina piccola ma accogliente mentre il padrone  di casa si toglieva il cappello e versava del vino per gli ospiti e  succo per i più piccoli. La moglie, disse, non c’era perché assisteva una  donna malata e sarebbe tornata a sera. Romedio e Albertina non finivano  più di ringraziare alternativamente Andrea e Bartolomeo, finché  la guida si spazientì e disse loro, amichevolmente, che avrebbe accettato  volentieri un loro invito per mangiare insieme la porchetta, famosa da  quelle parti. Bartolomeo mostrò loro la casa, dove aveva ricavato un laboratorio  per i suoi manufatti in rame.  «Come sei riuscito a fare questa decorazione?» chiese Romedio soppesando  uno stampo di rame finemente intarsiato. Tutt’intorno al tavolo  da lavoro erano esposti paioli, casseruole, anfore, brocche, recipienti di  varia forma e grandezza e piccoli oggetti da decoro, come scatoline e portapenne,  tutto frutto del lavoro dell’amico.  «Con il tempo si imparano tante cose. Io all’inizio sapevo ben poco,  sono stati il lavoro e l’esperienza a insegnarmi tutto. Sarà così anche per  te» rispose Bartolomeo.  «Lo spero» disse in un soffio Romedio.  I bambini si erano ripresi e chiedevano insistentemente di vedere la  nuova casa. Andrea salutò i nuovi arrivati e si avviò contento per le  strade battute dal sole, con un invito a cena nel prossimo futuro. L’attenzione  di Albertina invece era rivolta ad una fotografia appesa al muro,  nel corridoio della casa. Quando il marito le fu vicino, lo prese per un  braccio e gli ordino: «Guardate!» indicando l’immagine. Romedio si  voltò e vide, appesa al muro, una foto del suo paese. Non era un’immagine  di qualità eppure si distinguevano le case una per una, la chiesa, le  frazioni più in alto o forse erano loro che con il ricordo ne sapevano dare  l’esatta ubicazione. Un nodo gli serrò la gola e dovette far ricorso a tutte  le sue forze per non mettersi a singhiozzare davanti a tutti. Guardò Albertina  che nascondeva una lacrima asciugandosi velocemente il viso  con il palmo della mano e giurò a se stesso che un giorno sarebbe tornato.  Forse sarebbero trascorsi mesi o addirittura anni, ma un giorno sarebbe  tornato, per restare. Bartolomeo gli appoggiò una mano sulla  spalla e chiuse la porta dietro di sé mentre la famiglia si avvicinava al  carro, prendeva le sue poche cose e lo seguiva verso la sua nuova casa.  «È qui vicino, così per qualsiasi cosa potete rivolgervi a me» spiegò    Bartolomeo incamminandosi per una stradina. «Il proprietario torna la  prossima settimana, mi ha lasciato le chiavi».  Poco dopo giunsero in una piazzetta lastricata di ciottoli nel cui centro  zampillava acqua da una fontana. Ai lati, le casette sembravano seguire  il perimetro di una circonferenza segnata anche da grandi alberi  che garantivano il fresco. Non era poi così male, pensarono Romedio e  la moglie.  «È quella» indicò Bartolomeo.  Si trattava di un’abitazione simile a quella dell’amico, alta e stretta,  intonacata di bianco. C’era anche un piccolo cancello in ferro battuto  all’entrata. Giovanni e Marina l’aprirono e Bartolomeo si fece avanti con  le chiavi. Entrarono e videro che la tavola di legno era stata ingentilita  da una tovaglia e piccole composizioni di fiori.  «È stata mia moglie» si affrettò a spiegare Bartolomeo, mentre i due  amici appoggiavano le valigie e si guardavano attorno.  «Ringraziala da parte nostra, è stato un gesto carino» disse Albertina.  «Lo farò. Vi lascio, ho un po’ di cose da fare a casa. Per qualsiasi cosa,  chiamatemi. Con te, Romedio, ci vediamo domani» rispose Bartolomeo  e accennò un saluto.  Romedio lo accompagnò alla porta e tesagli la mano, strinse con forza  quella dell’amico. Non c’era bisogno di parole, quel gesto racchiudeva  tutta la gratitudine di Romedio che, senza Bartolomeo, in quel paese si  sarebbe sentito perso.  «A domani» ripeté Bartolomeo e lasciò la piazzetta.  Dentro, Romedio e la moglie esplorarono la casa. C’era la camera da  letto che, come a casa, avrebbero condiviso con i bambini, una cucina  con finestre che davano su un bel paesaggio di colline e da cui s’intravedeva  il campanile di una chiesa, la stanza da bagno e uno spazio vuoto  che sarebbe servito come bottega a Romedio. Tutto era stato pulito accuratamente  e contribuì alla buona impressione che i coniugi ebbero  dell’abitazione.  Tutto sommato, pensarono, quella sistemazione non era poi tanto  male. Iniziarono a disfare i bagagli e a sistemare le loro cose negli armadi,  nei cassetti e nelle cassapanche presenti. Romedio portò i suoi attrezzi  in quello che sarebbe diventato il suo laboratorio, ripensando  ancora alla maestria di Bartolomeo che sapeva lavorare il rame aggiungendo  decorazioni tanto sofisticate, Albertina estrasse dalla valigia la  biancheria, gli asciugamani ricamati da lei stessa con le sue iniziali, le  camicie da notte e i pochi abiti che possedeva, la sua dote, organizzandoli  negli spazi disponibili. Giovanni chiese cosa ci sarebbe stato per cena e  i genitori, accortisi di aver terminato tutte le provviste durante il viaggio,  trovarono in dispensa riso, latte, qualche salume, dono di Bartolomeo  che evidentemente aveva previsto quell’eventualità. La piccola Marina  intanto guardava nella piazzetta cercando di scorgere qualche altro bambino  con cui giocare, ma fuori non c’era nessuno. Albertina, che era intimidita  da quella gente tanto curiosa, guardando la bambina decise che  avrebbe senz’altro permesso ai suoi figli di giocare con i bambini del  paese perché, se si fossero fermati in quel luogo per molto tempo, non  potevano certo crescere soli, come dei selvaggi. Mentre terminava di sistemare  le capitò in mano il fazzoletto della domenica che sua madre le  aveva donato nel salutarla. Ricacciò indietro la tristezza e disse a Romedio:  «Sono già due feste che non andiamo a Messa. Andiamo in quella  chiesa, quella che si vede dalla finestra, a ringraziare di essere arrivati  sani e salvi. Poi scriveremo» disse al marito, intuendo l’ansia di Romedio  di comunicare notizie a casa.  Così si vestirono con gli abiti della domenica e, senza sapere la strada,  si avviarono verso la chiesa di Santa Chiara. Passò qualcuno per la via e,  vedendoli, i viandanti li salutavano cortesemente, senza più la curiosità  morbosa che avevano notato all’inizio. Forse era stata solamente una  loro impressione, forse quel primo tentativo di ambientarsi stava dando  qualche frutto. Una volta tornati a casa, avrebbero scritto alle rispettive  famiglie, rassicurandole che tutto era andato bene fin lì. Il resto, era tutto  ancora da vedere.                                    















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Lara Zavatteri